
Paternità documentale nell’era digitale:
come risalire alla “identità” grafica del falsario
Nell’era digitale può dirsi ancora indissolubile il legame tra l’identità espressiva dell’autore e l’irripetibilità di ciò che ha concepito come suo gesto? L’impronta del falsario conserva l’anonimato? Ecco come l’utilizzo della grafometrica permette una valutazione minuziosa della scrittura nel suo movimento e ritmo
Il termine “paternità” traduce la relazione di appartenenza che si stabilisce tra il prodotto/risultato di una azione e il suo autore, ovvero “colui che ne concepisce il disegno nella propria mente”[1] .
Tale relazione di “appartenenza” sussiste anche tra falso e falsario, assumendo una connotazione particolare poiché il legame si stabilisce con un prodotto (il falso) concepito attraverso la riproduzione della matrice ideativa di un altro soggetto
Falso e immedesimazione
La creazione di un falso in una qualunque espressione figurativa, quindi anche nella scrittura ed in special modo nella stesura di una firma apocrifa, implica un processo di immedesimazione nell’identità altrui che porta però inevitabilmente con sé le tracce, più o meno impercettibili, dell’autore materiale.
Nell’era digitale può dirsi ancora indissolubile il legame tra l’identità espressiva dell’autore e l’irripetibilità di ciò che ha concepito come suo gesto? L’impronta del falsario conserva l’anonimato?
Uno studio sperimentale[2] dimostra che la rilevazione delle caratteristiche bio – comportamentali della scrittura può coadiuvare nella ricerca e nell’identificazione dell’autore del falso tra un ventaglio di potenziali sospettati attraverso il confronto con i relativi specimen di mappatura grafometrica.
L’abilità dei falsari per professione è stata consacrata a fama leggendaria quando il prodotto imitato non solo superava (ingannevolmente) il giudizio di autenticità, ma soprattutto quando nel confronto con il vero, prevaleva il falso!
Nelle accademie artistiche del 700 i giovani apprendisti potevano ricorrere all’aiuto di artisti esperti, ma poi venivano sottoposti ad una prova estemporanea per dimostrare l’autografia del loro elaborato.
La grafia, al pari di un’opera artistica, è “individuale” unica per una o più caratteristiche che si corrispondono. L’osservazione dell’occhio esperto deve saper cogliere quel fatto insolito che è specifico di un’organizzazione di personalità”[3]; ragion per cui non ci si può limitare all’osservazione della forma delle lettere per decidere circa la falsità o veridicità di un documento, come già sosteneva Raveneau nel suo “Trattato delle Iscrizioni in falso” del 1666[4].
E’ atavico il tentativo di falsificare non solo nel senso di appropriarsi di qualcosa che non ci appartiene, ma anche come inclinazione al camuffamento della propria firma.
Alla “naturale” inclinazione al falso è speculare quella alla tutela dell’appartenenza.
E’ notoria la valenza simbolica della “c” raccolta in un cerchio ad indicare che un’opera è protetta dal diritto d’autore e che quest’ultimo debba esserne riconosciuto come proprietario.
A tal proposito una nota singolare viene suggerita dal mondo dell’arte: nelle opere artistiche di Margaret Keane[5] tale simbolo di copyright che con cura viene eseguito a mano sul supporto dell’opera (tela/ carta) e collocato accanto alla firma.